venerdì 29 aprile 2011

DUE PER LA STRADA (La storia di Radam)

Questa volta abbandoniamo le guerre, le passioni e gli avvenimenti del corso per parlare di tutt'altro, questo è un articolo che secondo me piacerà ai veri giornalisti, ma andiamo per ordine.
L'altro giorno ero per strada quando mi si avvicina un uomo di colore, con una giacca a vento marrone. Mi chiama Franco, io capisco il suo errore e gli spiego che per chiamare le persone deve dire al massimo "compà" e non Franco.
Comincia a spiegarmi che è libico e prova a raccontarmi la sua storia, ma capendo dove vuole andare a parare gli dico che se vuole qualche spicciolo glieli do basta che non mi fa perdere il pullman, lui resiste, mi ferma con una mano e mi dice: "Se dopo mi vuoi dare soldi me li dai, ma per favore prima sentimi."
Incuriosito da questo strano atteggiamento, decido così di starlo ad ascoltare. Lui mi dice che è scappato dalla Libia perché lì, hanno un figlio di puttana chiamato Gheddafi. Io, sorridendo gli dico che invece a noi italiani ci tocca Berlusconi.
Mi racconta che Gheddafi gli ha sterminato la famiglia (probabilmente mentiva solo qui), che in Libia non c'è nessuna libertà, che pare esserci perché il loro sovrano si crea da solo l'opposizione e la satira, ma che in realtà è tutto controllato (non vi ricorda nessuno? [Iene? Striscia la notizia?]). Per questi motivi e ovviamente per la rivoluzione in atto è scappato ed è giunto in Italia.
Gli dico di non restare in Italia, che sono tutti bastardi e che gli stranieri (la parola che mi è venuta in mente in quel momento era "i diversi") vengono trattati come cani, gli consiglio quindi di andare in Francia o in Germania.
Lui fa un'espressione vaga, come per dire "devo prima pensare a come campare stanotte".
Gli chiedo come si chiama. Mi risponde: "Radam". Gli domando: "E stanotte dove dormirai Radam?" Lui mi dice: "Fuori. All'autostazione, al massimo."
Poi mi mostra i soldi che ha in tasca. Ha circa 1 euro e 70.
Mi viene in mente di aiutare quell'uomo, di farlo dormire nella cucina di casa mia, di dargli da mangiare. Poi però ricordo che per tanti motivi non posso aiutare quell'uomo (coinquilini, aiutarlo per un giorno non lo salverà tutta la vita).
Mi guardo in tasca e gli do quello che trovo. Non è tanto. Non ho potuto fare tanto.
Ho regalato a quell'uomo un pesce, ma sarebbe stato meglio se gli avessi insegnato a pescare.
Gli ripeto di andarsene in Francia, che qui sono tutti bastardi e le persone come lui vengono trattati malissimo. Lui mi guarda e mi dice: "No, in Italia ci sono persone come te."
Io gli faccio promettere che userà quei soldi solo per mangiare e non per altro (è questa la mia paura ogni volta che concedo quella che volgarmente viene chiamata "elemosina"), lui con gli occhi lucidi mi assicura che si comprerà un panino.
Io sorrido e gli do la mano, ma lui mi abbraccia. Quel gesto insignificante che ho fatto, per quell'uomo vuol dire molto. Di cosa si tratta? Ascoltarlo, semplicemente ascoltarlo.
Mi domando: cosa cambierebbe se tutti noi facessimo dei gesti insignificanti? Bhe, quei gesti insignificanti si trasformerebbero in qualcosa di concreto.

Così parlò Bar18C

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